Quando leggo un libro è mia abitudine sottolineare a matita i passi che mi hanno colpito in quel particolare momento; ciò succede spesso anche durante una eventuale ri-lettura. Ecco raccolti in questa sezione tutte le mie principali sottolineature.
“Si dice che leggere le mappe sia un’arte; ed è vero per potersi districare tra le strade.
Ma tra la carta e il mondo esterno il vuoto è incolmabile, e alla fine si arriva alla conclusione che le mappe mentono senza volerlo. Lì fuori è tutt’altra storia e occorre camminare per capire davvero; le mappe sono solo la sintesi bidimensionale e inanimata del territorio, e fine.
E i grandi vuoti che si vedono sulle mappe del Delta, tra una strada e l’altra, un abitato e l’altro, vuoti non sono affatto.”
“Sulla piccola panchina accanto alla fermata della corriera è seduto un signore anziano, camicia a quadri aperta, canottiera, sguardo smarrito; mi segue con gli occhi e risponde al mio saluto con un movimento del capo, senza parlare o cambiare espressione. Passandogli accanto vedo, poggiati sulla panchina, un bastone e sacchetti di plastica.
La grande solitudine non è altro che un insieme di piccole solitudini.”
“Recuperare il concetto di spazio «pieno» significa fare i conti, e dunque contrattare, con la dimensione ambientale, sociale, culturale con cui in ogni momento entriamo in contatto, partendo dalla consapevolezza di fondo che quando si sale in montagna (ma non solo in montagna, ovviamente) si entra in uno spazio già occupato con cui fare i conti, significa farsi umili e mettersi in relazione con qualcosa che preesiste, riduce la sfera dei nostri diritti e amplifica quella dei nostri doveri.
“Oltre gli immaginari dicotomici” di Mauro Varotto in “Metromontagna
“Una descrizione di paesaggio, essendo carico di temporalità, è sempre racconto: c’è un io in movimento che descrive un paesaggio in movimento, e ogni elemento del paesaggio è carico di una sua temporalità cioè della possibilità di essere descritto in un altro momento presente o futuro.”
Italo Calvino citato da Ioannis K.Schinezos in “Foce. Taccuini dal Delta del Po”
“Io però adesso non riuscivo a dormire e mi rigiravo nella branda.
A quell’ora mio padre s’era già alzato, s’era affibbiato ansando i gambali, e infilato la cacciatora gonfia d’arnesi. Mi pareva di sentirlo muovere per la casa ancora addormentata e buia, svegliare il cane, chetare i suoi latrati, e parlargli e rispondergli. Scaldava la colazione al gas, per il cane e per sé; mangiavano insieme, nella fredda cucina; poi si caricava una cesta a tracolla, un’altra in mano, e usciva, a lunghi passi, la bianca barba caprina avvolta nella sciarpa. Per le mulattiere della campagna il suo passo pesante, accompagnato dal sonaglio del cane, e il suo continuo tossire e scatarrare erano come il segno dell’ora, e chi abitava lungo la sua strada sentendolo mezzo nel sonno capiva che era tempo di levarsi. Giunto col primo sole al suo podere, dava la sveglia ai contadini, e prima che fossero sul lavoro aveva già girato fascia per fascia e visto il lavoro fatto e da fare e cominciato a gridare e imprecare riempiendo della sua voce la vallata.
Più s’inoltrava nella sua vecchiaia, più la sua polemica col mondo si concretava in quell’alzarsi presto, in quell’essere il primo in piedi in tutta la campagna, in quella perpetua accusa verso tutti: figli, amici, nemici, d’essere un branco d’inutili infingardi.
E forse i soli momenti suoi felici erano questi dell’alba, quando passava col suo cane per le note strade, liberandosi i bronchi del catarro che l’opprimeva la notte, e guardando pian piano dal grigio indistinto nascere i colori nei filari delle vigne, tra i rami degli olivi, e riconoscendo il fischio degli uccelli mattinieri uno per uno.
Così seguendo col pensiero i passi di mio padre per la campagna, m’addormentai; e lui non seppe mai d’avermi avuto tanto vicino.