"Ingegnere per vocazione, fotografo per passione"
 

Architetti e (non) conoscenza della città

“Ecco, io credo che gli architetti non conoscano bene le città. Lo dico perché, quando si cammina da qualche parte nella città, si osserva tutto ma gli edifici non hanno molta importanza. Per i passanti la cosa più importante sono invece le vetrine dei negozi. Credo che sia terribilmente difficile costruire un’immagine positiva della città. Personalmente, mi interessano molto le foto aeree: è come disporre di una planimetria su cui lavorare. Ma i piani alti degli edifici, come li vedo qui fotografati, nessuno li nota in una città. In questa fotografia, ad esempio, c’è un edificio sul quale c’è una piccola cupola, ma nessuno l’ha mai vista salvo le persone che vi abitano.”

Yona Friedman in un conversazione con Gabriele Basilico a proposito del libro “Scattered city”

Fotografia professionale di architettura vs fotografia di paesaggio urbano

La fotografia professionale di architettura tende, direi quasi per vocazione, alla valorizzazione estetica dell’opera, a sottolinearne la bellezza così come a nasconderne i difetti. L’interpretazione che ne dà il fotografo si risolve in una ricomposizione dello spazio e della forma che, con la complicità della luce, può anche restituirne un’immagine diversa.

A fronte di questa naturale inclinazione, vorrei specificare il ruolo diverso, per certi versi complementare, che esprime la fotografia di paesaggio urbano, il cui percorso ho intrapreso da diversi anni e che è diventato per me familiare. L’attenzione dedicata più al contesto, allo spazio, che alla forma dell’opera architettonica, mi hanno abituato a una distanza critica, a uno sguardo che mira a una lettura più equilibrata e ‘veritiera’, cioè equidistante, dove l’opera architettonica di qualità riconosciuta e l’edilizia corrente possono convivere e avere sul piano visivo la stessa dignità.

Si tratta di cogliere il paesaggio urbano, e quindi l’architettura che ne fa parte, in modo più naturale, lontano dall’enfasi e dalla seduzione di un’interpretazione troppo formale, lasciando alle esigenze narrative dei dettagli il compito di un linguaggio più specifico, e liberando l’immagine dell’architettura da una costruzione estetica forzata, verso una convivenza libera con il contesto.

In questa rappresentazione delle forme, non ‘gerarchica’, in cui è valido il principio della sospensione di giudizio, credo vada inquadrato il mio lavoro di fotografo più in generale.

Gabriele Basilico in “Cassi Ramelli. L’eclettismo della ragione” – catalogo della mostra [2005]

Fotografare è disciplina

“fotografare è più una disciplina che un mestiere e se diventa un mestiere va esercitato con molta disciplina.”

Salvatore Piermarini in “Il perduto incanto”

La mappa: verità o menzogna

“Si dice che leggere le mappe sia un’arte; ed è vero per potersi districare tra le strade.

Ma tra la carta e il mondo esterno il vuoto è incolmabile, e alla fine si arriva alla conclusione che le mappe mentono senza volerlo. Lì fuori è tutt’altra storia e occorre camminare per capire davvero; le mappe sono solo la sintesi bidimensionale e inanimata del territorio, e fine.

E i grandi vuoti che si vedono sulle mappe del Delta, tra una strada e l’altra, un abitato e l’altro, vuoti non sono affatto.”

K.Schinezos in “Foce. Taccuini dal Delta del Po”

Piccole solitudini

“Sulla piccola panchina accanto alla fermata della corriera è seduto un signore anziano, camicia a quadri aperta, canottiera, sguardo smarrito; mi segue con gli occhi e risponde al mio saluto con un movimento del capo, senza parlare o cambiare espressione. Passandogli accanto vedo, poggiati sulla panchina, un bastone e sacchetti di plastica.

La grande solitudine non è altro che un insieme di piccole solitudini.”

K.Schinezos in “Foce. Taccuini dal Delta del Po”

Umiltà

“Recuperare il concetto di spazio «pieno» significa fare i conti, e dunque contrattare, con la dimensione ambientale, sociale, culturale con cui in ogni momento entriamo in contatto, partendo dalla consapevolezza di fondo che quando si sale in montagna (ma non solo in montagna, ovviamente) si entra in uno spazio già occupato con cui fare i conti, significa farsi umili e mettersi in relazione con qualcosa che preesiste, riduce la sfera dei nostri diritti e amplifica quella dei nostri doveri.

“Oltre gli immaginari dicotomici” di Mauro Varotto in “Metromontagna