“… io ero stanco di libri. Dopo i racconti del bardo, cominciai a pensare che non mi avessero aiutato per niente a capire il mondo. Anzi. Quella roba era stata una zavorra, mi aveva appesantito di citazioni, impedendomi di vedere con i miei occhi. Sentivo bisogno di silenzio. Di ascoltare solo me stesso e la voce del fiume. Sì, la voce. Avevo bisogno di voci, non di scrittura.”
“In Valle d’Aosta anche lo sfruttamento idroelettrico aveva raggiunto livelli parossistici. La Dora era ridotta a un rigagnolo, (…) ma peggio stavano i suoi affluenti. Fiumi fantastici fino a pochi anni fa, oggi fanno davvero tristezza. “Questi raschiano il fondo del barile, se ne fregano dei deflussi minimi vitali, senza pensare al progressivo scioglimento dei ghiacciai.” Io non so se avete mai visto quando svuotano una diga per scaricarne i fanghi accumulati. È terrificante. Tutto quello che sta a valle viene spazzato via. Alla fine resta un deserto. E la chiamano energia pulita.”
“Alla confluenza risalimmo un pezzo dell’Oglio, fino al famoso ponte di barche, uno dei pochi superstiti di una serie infinita di passerelle galleggianti che avevano marcato Po e affluenti fino a pochi anni prima. Era uno degli ultimi del mondo di ieri, fatto prima che il calcestruzzo generasse le solite ardite campate d’epoca totalitaria, e le bombe completassero l’opera affondando il grosso delle strutture galleggianti del Nord.
(…)
Non era un ponte di barche qualunque, mi disse la gente, ma un ponte che naviga. L’unico in Europa capace di spostarsi e non solo di salire e scendere. Si agganciava a quattro approdi diversi, su differenti livelli stradali. Aveva anche un ponte di comando – la baracca degli addetti, con letti e cucinino – e non era affatto una sinecura. Il fiume poteva alzarsi anche di due metri in ventiquattr’ore e bisognava stare all’erta. Stava effigiato nelle guide e nelle riviste, ma alla Provincia – che voleva sostituirlo con una struttura galleggiante fissa, un ambaradan con ai margini due pedane spaziali governate da terra, in grigliata di metallo, e un bel po’ di cemento sulle rive, buono per farci passare i Tir – non importava. Portata decupla, forse più; e cancellazione della strada articolata su quattro livelli. Insomma, la fine di un pezzo di storia italiana.
Il ponte nuovo non era poi così male, (…).
Ma col vecchio ponte non s’era perduto solo un capolavoro di manualità. Se n’era andato anche un presidio sulle acque, un sensore dei punti deboli dove il fiume poteva sfondare. Senza il ponte diventava meno leggibile la topografia delle brede, le terre basse, o dei bugni, voragini tonde come pignatte che squarciano le argille, dei fontanazzi addormentati o dei sifoni alla base dell’argine maestro. Sfuggiva la conoscenza delle sabbie, della cotica erbosa degli argini o della permeabilità dei terreni. Si perdevano i trucchi per tamponare le falle, che non vanno mai chiuse completamente, perché l’acqua si asseconda, non si blocca, altrimenti esplode e fa disastri.”
“Intorno a noi, diceva la mappa, c’era un labirinto di chiuse, golene, sbarramenti, sifoni, chiaviche, stazioni di sollevamento. E argini, fontanazzi, confluenze, idrovore, canali di scolo e di bonifica che in una trama indecifrabile si incrociavano con miracolosi sovrappassi, con l’Oglio che scorreva più alto rispetto a una pianura inondabile in ogni momento.
Intorno, i luoghi avevano nomi idraulici. Sabbioni, Bocca-bassa, o la Valle dell’Oca, così detta perché si allagava per salvare le terre vicine, più fertili. (…) E poi posti come la Corte Motta o la Corte Camerlenga, belle già dai nomi, fattorie con terrapieni che portavano al primo piano per rifugiare uomini, animali e carriaggi in caso di “rotta” del fiume. Arche di Noè in mattoni dove il diluvio non arriva una volta per tutte, ma torna sempre.
Po, che nei millenni s’era cercata la strada in cento modi diversi, lasciando tracce impressionanti di alvei in secca, compiva proprio qui la virata più spettacolare. Dopo Pomponesco girava verso le Alpi, tornava quasi indietro, come risucchiata dall’Oglio che subito la rigurgitava in direzione del Delta, in una nuova e pazzesca curva da autodromo. Altro che i canali di Francia, ora eravamo sull’Eufrate, in mezzo a segni millenari di regimazione delle acque, ben precedenti al “riscatto” fascista delle terre.”
“Ma Adda era stanca, esangue e sperduta, diceva soprattutto il patimento, narrava l’avidità dei lombardi, il ladrocinio delle acque nelle valli del Brembo e del Serio, le ferite inferte al serpentino della Valmalenco, il cemento di Bormio in fondo alla Valtellina, l’imbroglio delle centraline idroelettriche che per un nonnulla di energia sterminavano i torrenti delle Orobie, i ferri arrugginiti degli impianti di sci in fallimento in terra bergamasca e sopra Sondrio, piantati a quote troppo basse, dimenticati come vecchi ramponi sulla gobba di un capodoglio.”