"Ingegnere per vocazione, fotografo per passione"
 

e lui non seppe mai d’avermi avuto tanto vicino

“Io però adesso non riuscivo a dormire e mi rigi­ravo nella branda.

A quell’ora mio padre s’era già alzato, s’era affibbiato ansando i gambali, e infila­to la cacciatora gonfia d’arnesi. Mi pareva di sen­tirlo muovere per la casa ancora addormentata e buia, svegliare il cane, chetare i suoi latrati, e par­largli e rispondergli. Scaldava la colazione al gas, per il cane e per sé; mangiavano insieme, nella fredda cucina; poi si caricava una cesta a tracolla, un’altra in mano, e usciva, a lunghi passi, la bianca barba caprina avvolta nella sciarpa. Per le mulat­tiere della campagna il suo passo pesante, accom­pagnato dal sonaglio del cane, e il suo continuo tossire e scatarrare erano come il segno dell’ora, e chi abitava lungo la sua strada sentendolo mezzo nel sonno capiva che era tempo di levarsi. Giunto col primo sole al suo podere, dava la sveglia ai contadini, e prima che fossero sul lavoro aveva già gi­rato fascia per fascia e visto il lavoro fatto e da fa­re e cominciato a gridare e imprecare riempiendo della sua voce la vallata.

Più s’inoltrava nella sua vecchiaia, più la sua polemica col mondo si concre­tava in quell’alzarsi presto, in quell’essere il primo in piedi in tutta la campagna, in quella perpetua accusa verso tutti: figli, amici, nemici, d’essere un branco d’inutili infingardi.

E forse i soli momenti suoi felici erano questi dell’alba, quando passava col suo cane per le note strade, liberandosi i bron­chi del catarro che l’opprimeva la notte, e guardan­do pian piano dal grigio indistinto nascere i colori nei filari delle vigne, tra i rami degli olivi, e ricono­scendo il fischio degli uccelli mattinieri uno per uno.

Così seguendo col pensiero i passi di mio padre per la campagna, m’addormentai; e lui non seppe mai d’avermi avuto tanto vicino.

Italo Cavino, da “L’entrata in guerra”

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