… con il suo lavoro si entra in una relazione di affetto, quasi un principio di innamoramento; i luoghi, gli spazi, i volti diventano immediatamente riconoscibili, familiari, abitabili. Nessuna violenza, nessuno choc, visivo o emozionale, nessuna sdolcinatura; quello di Evans è uno stato di «tenerezza» nei confronti del mondo, una sensazione di unità e sintonia. Ogni parte del paesaggio, dai tetti delle case alle insegne sui muri, sembra attendere che si posi lo sguardo amorevole di Evans per essere riconosciuta. Nessuno steccato oltre la casa per esilii definitivi o provvisori.
Forse alla fine i luoghi, gli oggetti, le cose o i volti incontrati per caso, aspettano semplicemente che qualcuno li guardi i riconosca, e non li disprezzi relegandoli negli scaffali dello sterminato supermarket dell’esterno. Forse questi luoghi appartengono più al nostro esistente che alla modernità e non solo ai deserti o alle terre desolate. Aspettano forse nuove parole o nuove figure, perché quelle che conosciamo sono da troppo usurate, e perché molti non sono stati solo mutamenti del paesaggio, quanto cambiamenti del vivere. In tutto questo mi sembra di leggere, soprattutto, una sorta di stato di necessità affinché il paesaggio di cui parliamo, luogo del presente, si trasformi e non rimanga luogo di nessuna storia e di nessuna geografia.
Nell’Italia dei nostri padri la ricchezza era ancora legata al lavoro. Lavoro spesso svolto in condizioni durissime: sfruttamento, mezzadri in balia del padrone, ragazzini e donne al nono mese di gravidanza chine sui campi; e poi ciminiere in città, reparti verniciatura, acciaierie in riva al mare. Ma comunque era il lavoro – in campagna, in fabbrica, nei servizi – a produrre la ricchezza. Ora i soldi si fanno con altri soldi. Il lavoro sembra non valere più nulla. Viene esportato, in Paesi dove costa molto meno; sostituito dalle macchine intelligenti; reso inutile dalla Rete; affidato a immigrati disposti a faticare molto in cambio di poco, magari in nero. (…) L’economia mondiale era adagiata su una montagna di carta destinata a franare alla prima emergenza. Il coronavirus è stato un’emergenza al di là di qualsiasi previsione. E ora che si tratta di ripartire, dovremmo ritrovare non solo lo spirito, ma anche il metodo con cui le nostre madri e i nostri padri ricostruirono l’Italia dalle macerie della seconda guerra mondiale: il lavoro. Perché il lavoro è dignità; come l’insegnamento, come lo studio. Sono queste le uniche leve che possono innalzarci al livello di quella grandezza, di quell’eterno genio italiano che è il vero centro della poesia di Dante.
E questa è una cosa molto italiana, perché se è vero che in ogni Paese ci sono accenti del Nord e del Sud, non esiste una terra come la nostra dove a ogni crinale di collina cambiano inflessioni, lessico, cantilene, profumi, sapori, abitudini. Siamo un Paese di piccole patrie, e il legame con il territorio è una ricchezza, perché il gusto di essere italiani è anche essere diversi gli uni dagli altri.
La pratica del ritornare crea una singolare disposizione sentimentale: come l’attesa per un appuntamento desiderato, un risvegliarsi della memoria per luoghi, oggetti, persone, come se si riaccendesse il motore di una macchina ferma da tempo. Per Beirut è stato anche di più.
Prima del 1945 la Valsugana, la valle di Cembra, di Non, di Sole, dei Mòcheni, di Lagaro, il Lomaso, il Terragnolese, presentavano una differenziazione casa-insediamento così personale da poterla rilevare immediatamente, senza quasi approfondirne il tema. In una stessa vallata come quella dei Mòcheni, che fino al 1950 rimase avulsa dal territorio per mancanza di strade, si concentrarono due tipi distinti di insediamento, da stupire l’etnografo e lo stesso antropologo, pur avendo un contesto comune di usi, costumi, tradizioni, religione. Percorriamo, oggi, le stesse valli, guardiamoci in giro. Rimarremmo perplessi perché non riusciamo quasi più a rintracciare quegli elementi costruttivi che le evidenziavano le une dalle altre e davano ad ognuna la loro chiara, distinta personalità. Le case che l’uomo moderno ha inserito nel paesaggio, eliminando le vecchie case, sono uguali a Pinzolo, a Tuenno, a Taio, a San Zeno, a Terragnolo, a Vigo di Fassa, a Tesero, a Canazei. Non più quindi una espressione di casa per vallate e distinta personalità, ma un territorio di uniformizzazione e monotonia edile che può trovare gli stessi riscontri nelle pianure di qualsiasi ormai anonimo paesaggio europeo occidentale. Pensiamo alla Campiglio di un tempo e a quella di oggi. Basterebbe che qualcuno inventasse una macchinetta per produrre l’aria di Campiglio per augurarci quasi di starcene seduti davanti a uno schermo a Milano.
Giuseppe Sebesta, fondatore del Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina