"Ingegnere per vocazione, fotografo per passione"
 

… perché l’acqua si asseconda, non si blocca, altrimenti esplode e fa disastri.

“Alla confluenza risalimmo un pezzo dell’Oglio, fino al famoso ponte di barche, uno dei pochi superstiti di una serie infinita di passerelle galleggianti che avevano marcato Po e affluenti fino a pochi anni prima. Era uno degli ultimi del mondo di ieri, fatto prima che il calcestruzzo generasse le solite ardite campate d’epoca totalitaria, e le bombe completassero l’opera affondando il grosso delle strutture galleggianti del Nord.

(…)

Non era un ponte di barche qualunque, mi disse la gente, ma un ponte che naviga. L’unico in Europa capace di spostarsi e non solo di salire e scendere. Si agganciava a quattro approdi diversi, su differenti livelli stradali. Aveva anche un ponte di comando – la baracca degli addetti, con letti e cucinino – e non era affatto una sinecura. Il fiume poteva alzarsi anche di due metri in ventiquattr’ore e bisognava stare all’erta. Stava effigiato nelle guide e nelle riviste, ma alla Provincia – che voleva sostituirlo con una struttura galleggiante fissa, un ambaradan con ai margini due pedane spaziali governate da terra, in grigliata di metallo, e un bel po’ di cemento sulle rive, buono per farci passare i Tir – non importava. Portata decupla, forse più; e cancellazione della strada articolata su quattro livelli. Insomma, la fine di un pezzo di storia italiana.

Il ponte nuovo non era poi così male, (…).

Ma col vecchio ponte non s’era perduto solo un capolavoro di manualità. Se n’era andato anche un presidio sulle acque, un sensore dei punti deboli dove il fiume poteva sfondare. Senza il ponte diventava meno leggibile la topografia delle brede, le terre basse, o dei bugni, voragini tonde come pignatte che squarciano le argille, dei fontanazzi addormentati o dei sifoni alla base dell’argine maestro. Sfuggiva la conoscenza delle sabbie, della cotica erbosa degli argini o della permeabilità dei terreni. Si perdevano i trucchi per tamponare le falle, che non vanno mai chiuse completamente, perché l’acqua si asseconda, non si blocca, altrimenti esplode e fa disastri.”

Paolo Rumiz in “Morimondo”

Virata a nord-ovest

“Intorno a noi, diceva la mappa, c’era un labirinto di chiuse, golene, sbarramenti, sifoni, chiaviche, stazioni di sollevamento. E argini, fontanazzi, confluenze, idrovore, canali di scolo e di bonifica che in una trama indecifrabile si incrociavano con miracolosi sovrappassi, con l’Oglio che scorreva più alto rispetto a una pianura inondabile in ogni momento.

Intorno, i luoghi avevano nomi idraulici. Sabbioni, Bocca-bassa, o la Valle dell’Oca, così detta perché si allagava per salvare le terre vicine, più fertili. (…) E poi posti come la Corte Motta o la Corte Camerlenga, belle già dai nomi, fattorie con terrapieni che portavano al primo piano per rifugiare uomini, animali e carriaggi in caso di “rotta” del fiume. Arche di Noè in mattoni dove il diluvio non arriva una volta per tutte, ma torna sempre.

Po, che nei millenni s’era cercata la strada in cento modi diversi, lasciando tracce impressionanti di alvei in secca, compiva proprio qui la virata più spettacolare. Dopo Pomponesco girava verso le Alpi, tornava quasi indietro, come risucchiata dall’Oglio che subito la rigurgitava in direzione del Delta, in una nuova e pazzesca curva da autodromo. Altro che i canali di Francia, ora eravamo sull’Eufrate, in mezzo a segni millenari di regimazione delle acque, ben precedenti al “riscatto” fascista delle terre.”

Paolo Rumiz in “Morimondo”

L’avidità: una pubblica virtù.

Alla domanda “In questo momento cosa ti delude maggiormente dell’America?”,

Robert Adams risponde, in “Lungo i fiumi”, “Aver elevato l’avidità a pubblica virtù.

Adda era stanca

“Ma Adda era stanca, esangue e sperduta, diceva soprattutto il patimento, narrava l’avidità dei lombardi, il ladrocinio delle acque nelle valli del Brembo e del Serio, le ferite inferte al serpentino della Valmalenco, il cemento di Bormio in fondo alla Valtellina, l’imbroglio delle centraline idroelettriche che per un nonnulla di energia sterminavano i torrenti delle Orobie, i ferri arrugginiti degli impianti di sci in fallimento in terra bergamasca e sopra Sondrio, piantati a quote troppo basse, dimenticati come vecchi ramponi sulla gobba di un capodoglio.”

Paolo Rumiz in “ Morimondo”

La via Emilia incontra il Po

“Lì, tra Rimini e Milano, ero finito sul gran paracarro intermedio della più famosa strada dell’antichità. Era da lì che la romana Via Emilia si divaricava ad angolo acuto rispetto al fiume come la mascella inferiore di un caimano.

Quante volte avevo cercato la leggenda su quella fantastica dirittura che, sul piede d’Appennino, spaccava le città come una spada di samurai!

Ci tornai anche dopo il viaggio fluviale, e lo feci apposta in un inverno di pioggia, la seguii dall’inizio alla fine per gustare, proprio sul ponte della SS9 di Piacenza, lo scontro finale tra la logica rettilinea dell’Impero e quella serpentiforme, millenaria, di Po. Ed era straordinario che l’idea-tipo della linea retta scegliesse, per quell’attraversamento, proprio il punto in cui l’acqua si mostrava nella sua forma più tortuosa, irregolare e imprevedibile, nel cuore della terra dei meandri.”

Paolo Rumiz in “Morimondo”

Josto Miglior Fotografo

“l’ultima parola spetta alla coralità del paese, quella di ieri e di oggi, che parla e prende vita nel corpus di queste opere e ci restituisce alla memoria cose che ormai credevamo dimenticate. Ecco il potere evocativo ed insostituibile della fotografia, quello di restituire ad un’apparenza visibile la memoria confusa dei nostri ricordi, anche quelli creduti perduti per sempre.”

Partendo dalla frase conclusiva dell’introduzione di Mauro Rombi al libro dedicato al dottore e fotografo Josto Miglior edito nella collana “I fotografi della Sardegna” voglio fare le congratulazioni a Mauro per questa collana dedicato alla riscoperta del proprio territorio a partire da immagini di fotografi sardi e quindi con una visione da autoctono. 

Come è raccontato nell’introduzione molto spesso il territorio sardo è stato infatti oggetto di ricerche da parte di fotografi venuti da fuori che potrebbero avere registrato solo quella parte di Sardegna a loro più comoda (vuoi per ricerche antropologiche, vuoi per le bellezze naturali presenti).

A questo proposito voglio peraltro ricordare i bei recenti lavori del collettivo “Paesaggio a nord ovest” (sito https://paesaggioanordovest.it) dedicato ovviamente ad una Sardegna vista nella sua modernità senza nascondere anche qualche aspetto problematico.