"Ingegnere per vocazione, fotografo per passione"
 

In una parola: caos!

“… qui è tutto diverso, persino la logica insediativa cambia. È più caotica, meno coerente.

Un palazzone di case popolari, sei piani fuori terra, prospiciente a una serie di capannoni. Una villa col mattone paramano a vista, con la loggia falsorinascimentale che si affaccia su un deposito, senza soluzione di continuità, senza cesure. Silos, depositi, aree incolte, gasometri, fabbri, persino cavalli, tacchini, galline.

Un caos insediativo, illogico, che ho visto in molte parti d’Italia, spessissimo al Sud, come a volermi ricordare che ci assomigliamo più di quanto crediamo di distinguerci.”

Gianni Biondillo in “Tangenziali” parlando della zona attorno a Cologno monzese

Ogni città racchiude in sé il passato e il futuro

“Ogni città è un palinsesto, un documento sul quale si continua a scrivere, giorno dopo giorno, secolo dopo secolo, senza che nulla venga davvero perduto. Magari nel nome di una via, nella pietra angolare di un edificio, nei ricordi dei suoi abitanti; la memoria, nelle città, non si fa tempo, si fa spazio. Ogni città racchiude in sé il passato e il futuro, il suo talento e la sua vocazione. Le città sono la scommessa dell’umanità, il luogo dove tutto può finire o tutto può ricominciare daccapo.”

Gianni Biondillo e Michele Monina in “Tangenziali”

Il tempo è elastico

“Chi viaggia sa che il tempo è elastico. La stessa strada fatta in circostanze diverse può sembrare lunghissima e corta; e sull’acqua questa percezione diventa ancora più forte. I Greci l’avevano capito e avevano tre modi di chiamare il trascorrere delle ore.

Uno è kronos, il tempo del gran da fare, scandito da appuntamenti e preoccupazioni.

Il secondo è aion, che è tutt’altra cosa: l’infinito, incommensurabile eterno presente che si assapora nei momenti di ozio, e che solo gli dèi sanno misurare.

Il terzo, il più inafferrabile, porta il nome di kairos, che significa l’occasione, l’imprevisto che ti taglia la strada e ti ribalta la vita.

Dei tre il più temibile è il primo, perché crea un’accelerazione tale da accorciarla; e infatti Kronos non è una madre che nutre i figli ma un padre spietato che li divora. Un uomo impegnato può farsi divorare dalla sua agenda, e la montagna di posta inevasa che lo attende alla fine di una trasferta può essere tale da rovinare la dolcezza del nostos, il ritorno a casa.

A quel punto il malcapitato preferisce smaltire la corrispondenza in viaggio, ma così lascia che kronos gli tolga kairos, l’occasione di incontro che fa il sale della libertà, e gli uccida quel silenzio interiore capace di connetterlo a quel po’ di aion che gli dèi gli concedono.”

Paolo Rumiz in “Morimondo”

Ero stanco di libri, avevo bisogno di voci

“… io ero stanco di libri. Dopo i racconti del bardo, cominciai a pensare che non mi avessero aiutato per niente a capire il mondo. Anzi. Quella roba era stata una zavorra, mi aveva appesantito di citazioni, impedendomi di vedere con i miei occhi. Sentivo bisogno di silenzio. Di ascoltare solo me stesso e la voce del fiume. Sì, la voce. Avevo bisogno di voci, non di scrittura.”

Paolo Muriz in “Minimondo”

E la chiamano energia pulita.

“In Valle d’Aosta anche lo sfruttamento idroelettrico aveva raggiunto livelli parossistici. La Dora era ridotta a un rigagnolo, (…) ma peggio stavano i suoi affluenti. Fiumi fantastici fino a pochi anni fa, oggi fanno davvero tristezza. “Questi raschiano il fondo del barile, se ne fregano dei deflussi minimi vitali, senza pensare al progressivo scioglimento dei ghiacciai.” Io non so se avete mai visto quando svuotano una diga per scaricarne i fanghi accumulati. È terrificante. Tutto quello che sta a valle viene spazzato via. Alla fine resta un deserto. E la chiamano energia pulita.”

Paolo Rumiz in “Morimondo”

… perché l’acqua si asseconda, non si blocca, altrimenti esplode e fa disastri.

“Alla confluenza risalimmo un pezzo dell’Oglio, fino al famoso ponte di barche, uno dei pochi superstiti di una serie infinita di passerelle galleggianti che avevano marcato Po e affluenti fino a pochi anni prima. Era uno degli ultimi del mondo di ieri, fatto prima che il calcestruzzo generasse le solite ardite campate d’epoca totalitaria, e le bombe completassero l’opera affondando il grosso delle strutture galleggianti del Nord.

(…)

Non era un ponte di barche qualunque, mi disse la gente, ma un ponte che naviga. L’unico in Europa capace di spostarsi e non solo di salire e scendere. Si agganciava a quattro approdi diversi, su differenti livelli stradali. Aveva anche un ponte di comando – la baracca degli addetti, con letti e cucinino – e non era affatto una sinecura. Il fiume poteva alzarsi anche di due metri in ventiquattr’ore e bisognava stare all’erta. Stava effigiato nelle guide e nelle riviste, ma alla Provincia – che voleva sostituirlo con una struttura galleggiante fissa, un ambaradan con ai margini due pedane spaziali governate da terra, in grigliata di metallo, e un bel po’ di cemento sulle rive, buono per farci passare i Tir – non importava. Portata decupla, forse più; e cancellazione della strada articolata su quattro livelli. Insomma, la fine di un pezzo di storia italiana.

Il ponte nuovo non era poi così male, (…).

Ma col vecchio ponte non s’era perduto solo un capolavoro di manualità. Se n’era andato anche un presidio sulle acque, un sensore dei punti deboli dove il fiume poteva sfondare. Senza il ponte diventava meno leggibile la topografia delle brede, le terre basse, o dei bugni, voragini tonde come pignatte che squarciano le argille, dei fontanazzi addormentati o dei sifoni alla base dell’argine maestro. Sfuggiva la conoscenza delle sabbie, della cotica erbosa degli argini o della permeabilità dei terreni. Si perdevano i trucchi per tamponare le falle, che non vanno mai chiuse completamente, perché l’acqua si asseconda, non si blocca, altrimenti esplode e fa disastri.”

Paolo Rumiz in “Morimondo”